venerdì 29 aprile 2011

Sono i giorni del risveglio, e del ritorno


Sono questi i giorni del risveglio, del grande, eterno ritorno: alla casa e alla vita.

Il ritorno della resurrezione di chi non muore, di chi si era addormentato, di chi era partito.

E ancora, è il risveglio di Gea la Terra, e dei germogli, del verde e del lilla, del viola, blu, giallo dei fiori, dei cespugli, dei rami.

E’ il risveglio del grano, morto nel gelo ruvido e nudo, e risorto, in acqua profumata di fiori d’arancio.

Sono le sensazioni, i profumi , gli odori e i ricordi onnipresenti in questi giorni, in cui il sole va e torna, e che l’Equinozio di Primavera e la Pasqua assieme, come e più di altri anni imperiosamente riportano, con la loro forza, attiva e tangibile quest’anno che sono accoppiati, più che altre volte.

Sempre la Pasqua mi ha evocato sensazioni pagane, primitive perché terrene, nel senso di legate alla terra quant’altre mai.

I profumi anzitutto, dell’erba appena tagliata, che solo un mese fa non c’era; delle prime ginestre, dei primi ciliegi e mandorli fioriti.
I rumori: dell’acqua dei ruscelli che precipitavano a valle nelle gole pietrose, delle grida degli uccelli tornati, delle rotaie che stridevano quando il piccolo treno trapassava il ponte fra le nuvole, sospeso sui canyons della Lucania.

A casa si tornava, a casa!
Era solo l’ultimo di tanti ritorni, eppure è,  per sempre, quello che dentro li ha tutti; che si specchiava nel ritorno delle colline ora verdi e dei cespugli solo adesso macchiati di bianco e di giallo; nel tuffo delle acque gelide, tornate a cadere dall’alto.

Stretti con i profumi dei fiori, in un abbraccio che mai si scioglie, sono ancora adesso gli aromi delle uova sode, della toma fresca, del salame, della dolce e materna ricotta che, a sorpresa, diventava licenziosa e piccante, tutta scheggiata di cioccolata amara ("… è amarissima!", ci lamentavamo per finta) nelle forme enormi a rettangolo.

La ricotta si ritrovava, stavolta frizzante perché unita alla menta e al sale, anche nel piccolo, elegante “fazzoletto” di pasta sfoglia ("....eh,questo è proprio solo per te!") che faceva capolino, presenza vezzosa e profumata di bosco, sul lunghissimo ripiano di legno, coperto come un altare da un lino bianco.

Sul ripiano coperto di bianco, in una multiforme compagnia, erano in attesa forme, profumi e sapori infiniti: avevano sembianze di pecorelle col naspro bianco, lucido come avorio;  di salati rettangoli d'oro brunito, grandi come scudi, o rotondi come anelli di giganti, bitorzoluti di uova rassodate e lucenti; di colombine appena atterrate, dal corpo ricoperto di schegge di zucchero multicolore....

Si, eravamo proprio tornati.






 
















giovedì 14 aprile 2011

San Michele aveva un gallo

Nella vita può accadere, per fortuna, che emozioni e bellezze indicibili tornino.
Per Fortuna, appunto; è lei, o il Caso, che permettono a una bottiglia già arrivata in passato dal mare, chissà come, addirittura di tornare!

Mi ritrovo, discutendo di libri e di lettura con amiche, chissà come a parlare in maniera appassionata di "San  Michele aveva un gallo",  vecchissimo film dei fratelli Taviani, che su di me aveva inciso come un punteruolo arrivato fino al midollo nella corteccia d'albero.
Mi lamentavo, come ho fatto molte volte negli anni, di averlo cercato come un tesoro smarrito, e di non averlo rivisto mai, nemmeno nelle personali dei registi, neppure in video, neanche in t.v.

Un'amica pronuncia per fortuna, la tipica, molesta frase: "...e che ci vuole?" aggiungendo:   "Hai rovistato  in internet? "  e si offre di farlo lei.
Dopo due giorni ricompare, sempre grazie al web con  un' email, in cui mi comunica che lo ha trovato, copiato e che se al nostro prossimo incontro porterò una "pennetta", potrò portarlo via con me.
L'ho rivisto ieri.

Proverò adesso a dire proprio quello "che non può dirsi".

Non certo la storia, forse conosciuta: un giovane rivoluzionario, figlio di agiati e noti possidenti, è a capo di un piccolo gruppo di ribelli, in in'Italia centrale non identificata, forse la Toscana, in un periodo non definito, certo prima dell'Unità. In una delle prime azioni il gruppo  viene con facilità estrema sconfitto dai gendarmi del Re, il rivoluzionario è condannato alla fucilazione, che verrà trasformata in carcere a vita.

Il film, dopo i primi trenta minuti, è già così concluso.

Il resto del racconto è tutto dentro la cella in cui il prigioniero sarà rinchiuso e dentro la sua testa, la sua inesausta fantasia, la sua incrollabile voglia di non lasciarsi andare e di rimanere, per sempre, quello che è : un capo rivoluzionario, amato, e anche contestato, dal suo gruppo, sempre presente.

Il prigioniero perciò si impone una ferrea disciplina: deve nutrirsi bene, non ammalarsi, deve convocare riunioni e decidere strategie, anche giustificarsi per la vendita di altrui proprietà, per "la causa" .
La cella deserta è così sempre affollata: di dialoghi, di scontri, di incontri con fantasmi.

Si intuisce il  passare delle stagioni dalla palandrana che il prigioniero indossa: sempre identica, ma calata sui fianchi d'estate, stretta attorno al corpo d'inverno.

Anche la minestra opaca che gli viene data ogni giorno è identica, come i  movimenti che gliela porgono : nella porta sempre sprangata si apre un piccolo sportello in basso,  facendo passare una mano, di cui mai si vede il corpo, che poggia sulla sabbia del terreno una ciotola, e un boccale d'acqua, sempre identici.

Il prigioniero però ogni giorno, e per dieci lunghi anni, berrà vini ricercati (del Reno, d'oltremare) e mangerà  cibi sempre diversi , leccornie da famiglia ricca,  raffinati,  di cui recita con cura ad alta voce le ricette.

Trascorso un decennio, dovrà essere trasferito in un altro carcere; per raggiungerlo dovrà traversare la laguna veneta.

Incontra così, su un'altra tartana dalla rossa vela latina, altri prigionieri politici; cerca di farsi riconoscere, di parlargli; discute con loro a distanza, sulla laguna deserta, di  azioni rivoluzionarie, di contadini, di terre...

I giovani prigionieri, c'è anche una donna fra loro che più degli altri lo detesta, gli dicono che in dieci anni tutto è mutato, che la sua è stata un'azione inutile, anzi dannosa, che ha solo ritardato la presa di coscienza degli operai: il vero motore, ora, della rivolta.

Il prigioniero ammutolisce, tenta di recuperare i fantasmi che hanno vissuto con lui, ignora i giovani, non li cercherà più, si stende per riposare.
Dopo qualche secondo, con uno scatto improvviso, si annega.

Qual é la fascinazione di questo racconto? Che contenga la vita, e naturalmente il suo contrario, la morte.

Che in un luogo vuoto di tutto, come la cella, ci siano ribellione, libertà e sperdimento, coraggio, miseria e  ingenuità, generosità, paura e  ricchezza,  scaltrezza, fiducia e passione, dolore e speranza, conflitto e pace, animalità e spiritualità.

Il prodigio che si realizza ogni volta, nel rievocare cibi meravigliosi, conosciuti e perduti, è struggente nella sua realistica illusione; i sapori e i profumi invadono l'ambiente con la loro assenza.

La ripetitività ossessiva, eterna, dei giorni e dei gesti, è ricca  di emozioni, conflitti, tensioni.
La vita non è quella visibile; le strade sono infinite, i percorsi pieni di fantasia,

E poi, naturalmente, c'é la sconfitta, la morte.

Il rivoluzionario, bimbo dai riccioli biondi , cantava piano la filastrocca "San Michele aveva un gallo", quando veniva per punizione rinchiuso in uno sgabuzzino della sua splendida villa padronale;  "San Michele aveva un gallo" sarà il potente coro  che si ascolta dopo la sua morte, lamento funebre sulle acque della laguna, lei si, grigia e immobile.