mercoledì 12 maggio 2010

Frequentare un Comitato Femminile al tempo della Destra

Ho partecipato la scorsa settimana a un incontro a inviti – ma pubblico – su alcuni temi di interesse generale (l’esclusione, la povertà) declinati al femminile.
Al centro dell’attenzione, dei discorsi, delle attenzioni, le donne, sempre più povere, sole, neglette.

A parlare, signore vice-capo di Gabinetto di Ministre (ahimè, senza portafogli alcuno, però piene di intenzioni e soprattutto di rivendicazioni di cose fatte), coordinatrici di ostelli cattolici, assessore al lavoro & alla famiglia….
Le parole, soprattutto quelle d’ordine che si credevano consunte dall’uso e invece no, si sono rincorse fra loro rievocando altri incontri, altri seminari, dibattiti, tavoli, conferenze- stampa….

E in effetti, cos’è che dovrebbe marcare la differenza, o almeno “una” differenza?

Rifletto che le istituzioni, anche quelle piccole come gli assessorati - e giù scendendo, i comitati, le consulte, i circoli - e i ruoli che alle istituzioni danno corpo, e soprattutto il potere che li accompagna (anche se questo è piccolo, minuscolo, locale, circoscritto alle enclaves ) ebbene, ampiamente predominano sulle diversità culturali, sui cambiamenti di alleanze e di gestione politica, che pure accadono e dovrebbero poi comparire, apparire in qualche forma…..

E’ l’istituzione che ha una sua forza monolitica e immutabile, e dunque “informa” di sé quelli (quelle) che le rappresentano, rendendoli identici, o sono gli obiettivi, talmente positivi, da rendere indistinguibili le “casacche” indossate?

Tenderei a sbilanciarmi completamente a favore della prima ipotesi: la forza del ruolo politico è tale che tutti/e finiscono per celebrare la “messa cantata”: la ritualità delle azioni e dei discorsi, delle proposte e degli incontri, in un girotondo autoreferenziale, recinto più o meno ampio in cui si piange, si esulta, ci si lamenta, nel tempo.

Però…..la declinazione degli argomenti al femminile, la presenza quasi esclusiva di donne fra le relatrici e fra il pubblico e, non ultimo, il mio essere appartenente allo stesso “genere” fa si che, come in un convento di suore di clausura, in un harem, in un gineceo qualunque insomma, la parola “casacca” scivoli nell’evocazione di nient’altro che un guardaroba, anzi molti guardaroba, declinati, questi si, in maniera diversa!

Ecco che finalmente esco dal mio stato sonnacchioso, in cui ero precipitata dopo essere stata scossa come ogni giorno dalla lettura del quotidiano ( “l’euro è precipitato, è in caduta libera! scoperte fosse comuni di centinaia di kosovari! la sede della conferenza stampa più vergognosa dell’ultima…settimana non era al Bagaglino ma a Palazzo Chigi! la nube ritorna!) e rifletto che è proprio questa “la differenza che fa la differenza”.

Noto infatti che sono quasi scomparsi i tailleur “tagliati comodi”, i dolce-vita caldi e a volte sintetici; sparite le borse “divertenti”, comprate forse a Londra ( ho trovato un banco a Covent Garden…!) a forma di innaffiatoio, in pvc coloratissimo verde prato o rosso fragola, oppure cucite con maniche di giacche maschili, in Principe di Galles; stessa scomparsa per le valigette da lavoro di nylon nero, residuo di convegni regionali e riconoscibili dalle scritte, in cui poter stipare carte e portafogli, rossetti e foulard; spariti i blazer “stile Armani” delle più giovani e rampanti, gli stivali “di moda” comprati nel negozio sotto casa; assenti le collane etniche, le maglie…..le maglie, dove sono?
Neanche una.

Scomparse pure, perdute nella memoria di altri incontri in tutto simili, le “stazze generose” di donne in età con capelli brizzolati e tagliati alla maschietta, come si diceva un tempo per ingentilire la definizione di un taglio maschio e corto; sparite anche le chiome disordinate tenute da fermagli o, in caso di signore davvero indaffarate e più giovani, da matite; occhialoni da miope e pantaloni comodi, “devo starci dentro tutto il giorno” , grigi o blu, a volte a quadri .

Ora invece mi accorgo di essere circondata da una marea nera, ma con qualcosa di bianco: il bianco è di tutti, ma proprio tutti, i pantaloni presenti, aderentissimi su tacchi chilometrici, a zeppa, di scarpe alcune già aperte in punta, nonostante la temperatura ancora rigida e la pioggia, che scoprono alluci adeguatamente dipinti di rosso o di marrone.

Il nero è di giacche strizzatissime (penso che ci vorrà il calzascarpe per sfilarle) tagliate rigide, sopra camicie trasparenti dalle scollature profonde: dentro, donne che non pesano più di cinquanta chili, capelli biondi e vaporosissimi, nessuna “ricrescita” imbarazzante, nessuna piega “come viene viene”, niente nodi, fermagli, brizzolature naturali.
Le borse sono tutte di gran firma, o eventualmente di marca, tutte o piccolissime o grandissime, tutte semivuote.

Si chiacchiera molto, moltissimo, nessuna ha un bloc notes, che non servirebbe perché nessuna ha preso appunti.
Solo io mi sono sentita in dovere di domandare, alla reception, avendo chiesto una biro che non ho avuto perché “non prevista” : “… e come si fa a scrivere?”

La risposta “…tanto non c’è neanche la carta!” , era un dato di fatto, la cartellina infatti conteneva solo lucide brochure su progetti finanziati, su cahiers de doléance, su gruppi di lavoro: numerosi.

Il cosiddetto “corridoio”, luogo perenne ed eterno di ogni incontro politico, dai congressi sindacali e dei partiti ai rinnovi delle tessere delle associazioni professionali, costante di ogni assise in cui ci sono decisioni da prendere e risorse, pure infinitesimali, da sistemare, era presente pure lì: è lì che mi sono accorta dei piedi dipinti.

Però non si ascoltavano, passando, frammenti di trame più o meno riservate, né dialoghi smorzati su alleanze da assestare, né accenni su accordi a danno di e a favore di.

No, le conversazioni, comunque fervide, vertevano su un piano bonario e familiare, come quando in famiglia appunto si conversa, a tempo perso, di parenti appena acquisiti che si conoscono poco, ma tanto bravi: “…è ’ vero si, prima era il gastroenterologo suo personale, ora come sottosegretario viaggia sempre, non si vede mai, ma è serio, emana un sacco di circolari e li mette in riga….”

…”si, prima recitava, ballava, e non era neanche male, io l’ho vista una volta a X; però bisogna riconoscere che ora si è messa a studiare, non le si può dire niente come Ministro, è quella che fa le proposte più serie, quelle che ci vogliono….ora si sposa pure…."

“…quando è che c’è il prossimo Forum internazionale? Noi come Comitato andremmo tutte a Istanbul, tanto stiamo in gruppo, che vuoi che ci succeda anche se usciamo, mica staremo sempre in albergo, no quella dei cammelli è una favola, non ci sono più neanche lì…."


La situazione si agita al momento del buffet; chi pensa che il genere femminile stia a dieta per definizione si sbaglia e una delle prove è la pausa pranzo di ogni convegno che si rispetti e che, se è tale, deve avere incorporato un “time lunch”.

Qui qualcuno avrà pensato che, essendo i presenti tutte donne, sarebbe stato opportuno, e più femminile, il cibo “da prendere con le dita” : minuscoli canapé farciti; quadrucci di pan carré con un micro-gamberetto; triangolini di quiche; tazzine delle bambole con dentro budini colorati…..immediatamente il muro umano diventa invalicabile, il corpo a corpo aggressivo.

Quando vedo che tutti gli altissimi tacchi con zeppa si sono schierati, assumendo il minaccioso assetto di guerra dei “cavalli di frisia”, a tutela dei varchi al tavolo, capisco di essere perdente: se finissi coinvolta nella lotta impari, con il mio mocassino sotto una qualunque di quelle armature, non potrei poi camminare per molto tempo, e come farei a frequentare altri seminari, altri comitati, altre consulte? Esco.